Se parliamo di cibo e marketing, il “cane di Pavlov” non è un semplice aneddoto scientifico, ma una metafora perfetta per descrivere un sistema che, oggi, ci porta a salivare per le cose sbagliate. Così come il cane di Pavlov associava il suono di una campanella al cibo, siamo diventati programmati a reagire a stimoli effimeri: la foto su una rivista patinata, il riconoscimento in un programma televisivo, un premio facile da ottenere o una collaborazione che ci fa apparire anziché costruire.
Nel mondo del food, questo meccanismo è diventato una trappola. Non si cerca più la sostanza ma l’apparenza. Quanti locali scelgono il foodblogger con seguito mediocre e una composizione reel “di tendenza” che si accontenta di un pranzo offerto, piuttosto che pretendere una collaborazione professionale e retribuita? Oppure si lasciano abbindolare dal giornalista di turno che in cambio di una recensione riesce a scroccare la cena del sabato sera? Il messaggio implicito è devastante: se non ci credete voi stessi nel valore del vostro lavoro, perché mai dovrebbero farlo i vostri clienti?
In un mondo sempre più popolato da scorciatoie, il concetto di professionalità si sbiadisce. È più facile cercare il consenso sui social con un reel superficiale che racconta l’ennesimo locale di moda, piuttosto che costruire un progetto serio e duraturo. Ma non sono solo i foodblogger a cedere a questo riflesso condizionato. Anche gli chef, i pizzaioli e i pasticcieri sembrano cadere nello stesso meccanismo. Si è persa la sacralità delle “quattro mura”: quelle mura che non sono una gabbia, ma una casa.
Essere perennemente in giro, ospiti di eventi e manifestazioni con la scusa che “oggi un professionista non può restare fermo”, è diventato un mantra per molti. Ma quelle quattro mura, il vostro ristorante, la vostra pasticceria, sono ciò che vi dà da mangiare, ciò che garantisce il futuro ai vostri figli. È lì che si costruisce una vera storia di successo, non nei riflettori di una passerella temporanea.
E allora, torniamo al cane di Pavlov. Fermiamoci un attimo a riflettere: per cosa stiamo salivando? Per un like su Instagram? Per un riconoscimento effimero? O per la soddisfazione autentica di aver creato qualcosa di significativo, che resterà quando le luci si spegneranno?
C’è una fame, quella vera, che non si sazia con l’apparenza. È la fame di lasciare un segno, di dare valore al proprio lavoro e al proprio talento. In fondo, il cibo non è solo nutrimento: è cura, cultura, connessione. È ciò che ci tiene umani.
Forse è arrivato il momento di riprenderci quella sostanza che abbiamo barattato per l’illusione. Di tornare a costruire anziché apparire, a credere in ciò che facciamo, così che possano crederci anche gli altri. E di ricordarci che la cucina non è solo uno spettacolo: è un gesto d’amore, prima di tutto per noi stessi.